La Fluminense di Fernardo Diniz
In questo articolo andiamo a vedere alcune interessanti novità portate dal tecnico brasiliano Fernando Diniz, che attua un sistema di gioco diametralmente opposto alle squadre europee mettendo al centro la tecnica e l’assenza di riferimenti fissi.
Secondo Roberto Rivelino, uno dei cinque numeri dieci brasiliani in campo durante la finale di Messico ’70, la colpa dell’eliminazione della Seleção ai quarti di finale dello scorso Mondiale contro la Croazia ai rigori, è stata tutta del suo allenatore che ha portato alla massima manifestazione calcistica una squadra tatticamente ingessata, con calciatori chiamati troppo spesso a rispettare le proprie posizioni. In quasi sette anni alla guida del Brasile, Tite ha saputo ricostruire la credibilità della Nazionale più blasonata del mondo dopo la dura crisi post-Mineirazo. Ed è anche riuscito a riportarla fin da subito in una dimensione top, nonostante le due sofferte eliminazioni ai Mondiali: la squadra che ha vinto la Copa América 2019 è stata senza dubbio la più dominante vista in Sudamerica negli anni Dieci, e di certo Tite è il migliore allenatore che il Brasile abbia espresso in quel periodo.
Il giudizio del leggendario fantasista è di certo iperbolico e ingeneroso, eppure rientra in un dibattito di più ampio respiro portato avanti anche da diversi analisti. L’autore che scrive sotto lo pseudonimo di Jozsef Bozsik, in un suo lungo articolo che ripercorre le permanenze e i cambiamenti nella storia del calcio brasiliano, porta avanti una tesi secondo cui, per una questione culturale e tecnica e quindi di uomini e calciatori, il vero gioco brasiliano ha necessità di esprimersi in squadre libere da vincoli posizionali rigidi, organizzate secondo connessioni istintive, asimmetriche, i cui giocatori hanno la libertà adeguata per esprimere il loro talento – che si tratti di puntare l’uomo, associarsi, inventare – ragionando in funzione del pallone e dei compagni, più che dello spazio da occupare. Ciò che Bozsik imputa a Tite, dopo un inizio di gestione molto affine a questi concetti, è di aver virato su uno stile sempre offensivo e orientato al dominio del gioco, però più rigido e posizionale, che considera lontano dallo spirito profondo del calciatore brasiliano e quindi della Seleção.
Il centro del dibattito, dunque, non è Tite ma il modo in cui è cambiato il calcio in quella parte del mondo: il Brasile, a livello storico e culturale, prima ancora che calcistico, è sempre stato un movimento ricettivo e aperto alle idee che arrivano dall’esterno dalle quali ha attinto a piene mani anche i principi del gioco di posizione, ovvero il modello egemone dell’ultimo decennio di calcio europeo. Se le versioni più iconiche della storia della Seleção, dal Brasile di Didí, Vavá, Pelé e Garrincha, passando per quello dei cinque numeri dieci e per la squadra straordinaria di Telê Santana, eliminata dall’Italia nell’82 costituiscono un eterno ritorno all’identità a cui fa riferimento Bozsik, l’allenatore brasiliano che in questo momento sembra portare con sé più di chiunque altro questa visione calcistica è senza dubbio Fernando Diniz, il tecnico del Fluminense. In Brasile è salito alla ribalta nel 2016, quando con il piccolo Audax è andato a un giro di rigori dalla vittoria del campionato Paulista; poi, negli anni successivi, ha allenato anche big come São Paulo e Vasco da Gama, portando con sé la fastidiosa e superficiale etichetta di allenatore spettacolare, preparato, ma troppo idealista per vincere. Il suo primo titolo in carriera è arrivato poche settimane fa, il campionato statale di Rio, per altro dopo aver battuto il Flamengo in finale.
Il Fluminense di Diniz è una squadra che vive di sintonie, quella collettiva tra i singoli calciatori e quella di ognuno di loro con il pallone: si gioca costantemente dal basso, si insiste nel fraseggio, si creano uno-due costanti, si cerca la superiorità numerica e si dominano le partite attraverso il possesso. Questo stile, abbinato alla grande aggressività nel recupero palla alto, ha portato molti commentatori a paragonare il suo calcio a quello di Guardiola, ma Diniz ha evidenziato che esistono non solo delle differenze, ma che si tratta due proposte concettualmente antitetiche, se guardate da un certo punto di vista.
La particolare destrutturazione tattica dell’allenatore brasiliano avviene, nello specifico, quando la sua squadra ha il pallone. Parafrasando Juanma Lillo (e per estensione Guardiola), nel gioco di posizione è la palla che va alla posizione, mai viceversa, dove per ‘posizione’ intendiamo la figura del giocatore in uno spazio predefinito. Fernando Diniz prova a fare l’esatto opposto: è il giocatore, o meglio, sono i giocatori che si avvicinano al pallone, raramente viceversa. I puristi del futebol arte lo idolatrano, convinti che possa essere il Messia del Nuovo Calcio, la resistenza al gioco meccanico europeo, figlio del sistema capitalista. L’allenatore classe 1974 non sembra essere incastrato in queste diatribe e se inconsapevolmente ha risvegliato certi romanticismi brasiliani, lui prosegue con uno scopo preciso che lo accomuna agli allenatori di tutto il mondo: vincere con la sua idea.
Del Fluminense balza all’occhio il gioco visivo fatto di passaggi corti e veloci, di interscambi rapidi tra i giocatori, di gesti tecnici ricercati. Associato (senza logica aggiungerei) a Guardiola, il calcio di Diniz è invece fatto di continui sistemi di prossimità tra i giocatori. Dimentichiamoci il campo da calcio diviso in zone precise, predefinite in base alla loro efficienza posizionale. O meglio, con Diniz una zona precisa esiste ed è la zona dove si trova il pallone. È lì che devono esserci quanti più giocatori possibili.
Vedendo giocare il Fluminense, si percepisce come le connessioni siano istintive: l’azione si sviluppa sempre avvicinando molti giocatori al pallone, generando scambi e continui smarcamenti. Non ci si preoccupa di occupare i cinque proverbiali canali che nel gioco di posizione dividono in verticale il campo, si cerca la prossimità, la vicinanza, lo scambio insistito. È assolutamente consueto vedere il terzino destro Samuel Xavier iniziare l’azione nella sua posizione naturale e chiuderla, diversi scambi dopo, ricevendo palla al centro dell’area. Marcelo, che ha consacrato la propria carriera a dimostrare al calcio contemporaneo fino a che punto un laterale brasiliano possa essere più di un terzino, ha segnato in finale contro il Flamengo quello che altrove sarebbe a tutti gli effetti il gol di un’ala destra. Fernando Diniz non ha mai fatto mistero che la squadra ad averlo emozionato più profondamente, da ragazzo, è stato il Brasile del 1982: è difficile pensare che l’esempio di quella Seleção, libera, asimmetrica e armoniosa, non sia alla base del suo modo di intendere il gioco.

Questa in alto è una mappa delle posizioni medie di una partita a caso del Fluminense (nello specifico si sottolinea la centralità del numero 7, André). Per qualcuno potrebbe essere il caos, la fotografia di una squadra sbilanciata. La stella polare è il pallone e attraverso di esso bisogna ricercare la superiorità numerica costante: l’avversario è
circondato, mandato in mezzo a quelli che sembrano grandissimi rondo sparsi per ogni altezza del campo. Il sistema di partenza è il 4-2-3-1 (usato per il 78% delle partite), ma la struttura non è mai rigida; simbolo di questa dinamicità è Ganso, lasciato da Diniz libero di assecondare i compagni in qualsiasi fase di gioco. Per molti è la resurrezione del numero 10, che l’evoluzione di quel calcio europeo malvagio ha divorato.
Ganso, come tutti i fantasisti mortificati almeno una volta nella vita dalle circostanze e dai sistemi, ammette di aver bisogno di sentirsi protagonista, per rendere: Diniz lo ha definito pubblicamente «un genio del calcio» e gli ha messo a disposizione un contesto affine al suo modo di stare in campo, in cui tutti i giocatori, dal portiere in su, non hanno paura di avere il pallone tra i piedi, di assumersi il rischio della giocata invece che rimanere incasellati nello spazio mentale, prima che fisico, della loro posizione, o di un gioco più diretto. Ganso velocizza la manovra, perché gioca a un tocco preciso per liberare i compagni mentre ha già attirato su di sé le attenzioni degli avversari; fronte alla porta, poi, può essere micidiale, perché il suo bagaglio di passaggi chiave è ampio.
Forse con Ganso la questione è più romanzata, legata all’idea nostalgica che abbiamo di un ruolo con ormai pochissimi interpreti, ma in realtà è Jhon Arias a permettere molte delle cose che vediamo in campo quando guardiamo il Fluminense. Perfino in un sistema così pallacentrico sono essenziali i movimenti senza palla e Arias è probabilmente il giocatore che più di tutti si muove in favore dei compagni. A Ganso viene lasciata molta libertà anche nelle conduzioni e infatti le statistiche ci dicono che è molto distante da André e Arias per metri percorsi in conduzione a partita: 162 metri contro i 284 e 250 degli altri due compagni di squadra. Ganso scivola sul campo soprattutto “all’indietro”, spalle alla porta, per liberarsi dalla marcatura in prima pressione e assecondare la fase di costruzione, non per attaccare la profondità. Il ritmo che presta alla squadra è il ritmo dei suoi passaggi, non delle sue corse. Donare questa libertà non significa nient’altro che potenziare le caratteristiche fisiche e tecniche del suo giocatore più creativo e Diniz lo sa bene.
Alcuni mesi fa, dopo le dimissioni di Tite al termine di un ciclo di più di sei anni in cui, anche il nome di Fernando Diniz è stato menzionato tra i possibili sostituti come commissario tecnico della Seleção. Indipendentemente da quello che sarà il futuro del suo allenatore, il Fluminense oggi brilla come una squadra speciale: profondamente in sintonia con i tratti culturali di lungo periodo della cultura calcistica da cui proviene, ma allo stesso tempo controculturale rispetto a un contesto attuale dominato dal gioco di posizione. Non sappiamo se questo sistema verrà attuato anche in ambito europeo ma di certo Fernando Diniz ha costruito la squadra più interessante, libera e spettacolare del Sudamerica.
